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Per Aspera Ad Veritatem n.27
Scenari della nuova Russia e questione cecena

Intervista a Paolo CALZINI


D. Yevgeny Yevtushenko, nella prefazione al volume The Russian Century, di Brian Moynahan, pone in luce in modo suggestivo alcune linee di fondo che a suo avviso attraversano l’ultimo secolo della storia russa. L’emofilia, che com’è noto affliggeva Alexis, erede dell’ultimo Tsar, è simbolicamente richiamata come malattia dell’intero Paese nel corso di tutto il ventesimo secolo, incapace di fermare lo scorrere del sangue nella propria vita nazionale. Il socialismo ereditò con il trono dello Tsar anche la malattia: sangue della guerra civile, sangue della collettivizzazione, sangue dell’industrializzazione. Infine, sangue della democratizzazione e delle guerre etniche. L’orlo dell’abisso costituisce una minaccia ricorrente. Ritiene il poeta che la Russia sia sempre stata una grande nazione, eccetto che nella sua vita politica, dominata dall’intolleranza e dalla mancanza di responsabilità, corollario necessario per colmare oggi i rischi di una libertà viceversa imperfetta. Nazionalismo e rapporti con le ex repubbliche sovietiche costituiscono altri passaggi chiave di un futuro che può essere intravisto, attraverso uno specchio, tra le macerie del passato.
In una prospettiva storica, quali sono a Suo parere le linee di continuità fondamentali attraverso i diversi sistemi che si sono succeduti nell’ultimo secolo di storia russa?


R. Vorrei partire da una premessa, per così dire di metodo. Sussiste tradizionalmente una certa difficoltà nell’interpretazione delle vicende della Russia. È una difficoltà che ha costantemente condizionato gli studiosi e gli esperti che si sono occupati, anche in passato, dell’impero zarista e dell’Unione Sovietica. Mi aiuta richiamare, per spiegare meglio, una famosa frase, ripresa anche in altre forme in epoche successive, che recitava: “La Russia è un enigma circondato da segretezza”. Questo pensiero riassume efficacemente, a mio avviso, la situazione nella quale si è sempre venuto a trovare l’interprete, l’analista ovvero lo studioso di cose russe. La chiusura e la remotezza della realtà di questo grande paese hanno accentuato o portato ad accentuare, soprattutto quando gli osservatori si collocavano nella prospettiva del mondo e dalla cultura occidentale, il momento della diversità, se non addirittura dell’alterità russa, rispetto all’esperienza ritenuta più avanzata, quella occidentale.
È stata ad esempio sempre sottolineata la particolare collocazione geografica della Russia, tra Asia ed Europa, in quanto, secondo una certa interpretazione che ritengo un po’ spinta, si ritiene che ci siano state significative influenze orientali sullo sviluppo russo. Ne consegue, secondo tale visione, che ai russi sarebbero mancate del tutto quelle esperienze civili, riconducibili alla tradizione culturale dell’illuminismo, del liberalismo, del socialismo democratico, che sono state viceversa fondamentali nel mondo avanzato. Con l’avvento del comunismo sovietico, questa alterità sarebbe necessariamente aumentata. Per quanto si trattasse di un regime di estrazione marxista e quindi occidentale, ma in versione estrema, russificata e soprattutto stalinista, si sarebbe accentuato l’elemento di ostilità, di estraneità e anche aggressività verso il mondo esterno.
La conferma della difficoltà interpretativa di cui stiamo discorrendo si è avuta anche recentemente, con la fine dell’Unione Sovietica. In questa circostanza, a ben vedere, è completamente mancata la capacità di previsione degli sconvolgimenti che si stavano preparando nel paese, di come cioè sussistessero all’interno delle contraddizioni così forti che avrebbero portato in tempi ravvicinati all’implosione del sistema imperiale comunista e quindi alla nascita della nuova Russia. Nonostante il consistente impegno interpretativo di tutta la scuola sovietologica, sia americana che europea, dovuto proprio all’importanza attribuita al rapporto conflittuale con l’Unione Sovietica, gli schemi mentali europei occidentali hanno faticato non poco a penetrare la realtà russa. Tale deficit di analisi ha riguardato sia la scuola cd. del totalitarismo, cioè coloro che ritenevano che il sistema sarebbe crollato solo sotto il peso di una spinta esterna violenta, sia quelli che, in una visione più blanda, diciamo liberale, ritenevano che la Russia sarebbe maturata e avrebbe avuto un’evoluzione legata alla spinta modernizzatrice che comunque si manifestava all’interno del paese.
Con la liquidazione del sistema di potere sovietico, la situazione è attualmente profondamente cambiata. A seguito dei mutamenti intervenuti, la Russia è relativamente più aperta, sicuramente non c’è confronto rispetto al precedente regime. Ciò determina, va da sé, una maggiore possibilità di valutazioni da parte degli osservatori esterni. Tuttavia, la difficoltà di realizzare, ancora oggi, un’analisi realistica, è dovuta, oltre che alla persistenza di zone d’ombra e di risvolti di segretezza e opacità a livello di regime, anche alla complessità intrinseca nel decifrare i sentimenti di fondo della società russa, sulla quale oggi si fanno sondaggi, inchieste, ma che rimane ancora difficile da interpretare. Questo mi sembra un primo e significativo elemento di continuità con il passato.

D. Si riferiva poco fa alla difficoltà di decifrare i sentimenti di fondo della società russa. I cambiamenti degli ultimi dodici anni hanno contribuito a creare un’opinione pubblica, nel senso che correntemente diamo a questa espressione, e qual è il suo peso?

R. Un’opinione pubblica in senso occidentale non è certamente ancora maturata. La società civile russa è debole e in parte disarticolata, per gli effetti di settanta anni di totalitarismo e autoritarismo. Esistono tuttavia, secondo uno schema che ricorre nell’esperienza russa, gruppi elitari che creano opinione pubblica, oggi sicuramente individuabili nei ceti urbani di S. Pietroburgo, Mosca, ecc.. Con i progressi, anche se relativi, verso la democrazia, questo avamposto di opinione pubblica comincia ad avere un peso sulle decisioni politiche.
È chiaro che le condizioni che abbiamo descritto aumentano la difficoltà di analisi, che si pone essenzialmente a due livelli: a livello del sistema di potere, nella misura in cui questo è erede di una tradizione di opacità e di segretezza cui si aggiunge, con Putin, una forte personalizzazione del potere; a livello di società che si trova in una fase di transizione, di passaggio, caratterizzata da molte ambiguità e contraddizioni negli atteggiamenti. Viviamo un cambio di generazione, un processo di mutamento dell’immaginario collettivo russo che è difficile da apprezzare in pieno. È un processo faticoso, ma che indubbiamente procede. Gli elementi di massima del sistema, inteso come regime politico e società, cominciano appena a delinearsi, a dodici anni dal passaggio dall’Unione Sovietica alla nuova Russia. Quello che resta, ed è mi pare il tema di fondo di questo nostro inizio di conversazione, è un complesso intreccio tra continuità e mutamento nel passaggio tra diversi regimi, istituzioni e, direi cosa ancora più importante, nella mentalità e nelle attitudini. Questioni che si pongono inevitabilmente, in tutte le fasi di transizione.

D. In relazione a ciò, e per altre intuibili ragioni, uno degli aspetti certamente più interessanti da indagare è il rapporto tra la nuova Russia e l’ancien régime sovietico, non tanto in relazione alla riconversione di gruppi di potere e alla sopravvivenza di apparati – ne parleremo più avanti – quanto in una prospettiva di psicologia sociale, uno degli indicatori della reale propensione al cambiamento. Chiunque visiti Mosca o San Pietroburgo rimane colpito dalla circostanza che i simboli del comunismo non sono stati cancellati o rimossi, forse testimonianza orgogliosa di un passato da grande potenza.
Come pensa sia possibile interpretare questa singolare circostanza? Quanto dell’habit of mind sovietico resiste ancora nella società russa?


R. Per inquadrare bene questo punto occorre uno sguardo retrospettivo, delineare, seppure sinteticamente, l’itinerario seguito nel passaggio dall’Unione Sovietica alla nuova Russia.
Questa si costituisce come Stato indipendente nel 1991, sulle rovine del sistema imperiale comunista sovietico. Qui rileva una prima osservazione. Caso unico nella storia recente, un apparentemente formidabile sistema di potere crolla per implosione, senza che la sua fine sia il risultato di una guerra, di un episodio di violenza, di una rivoluzione interna, come era viceversa sempre accaduto per altri regimi che, sotto il profilo territoriale, presentavano analogie. Si pensi a sistemi come l’Impero ottomano e quello asburgico. Sono facili da immaginare i contraccolpi che un processo di cambiamento più traumatico avrebbe potuto avere, tenendo conto che l’Unione Sovietica era un paese multinazionale, dotato di armamento nucleare e soprattutto – questa è l’importanza della Russia di ieri e di quella di oggi – collocato in tutta la sua estensione al centro del sistema euro-asiatico. Tutto quello che avviene in quest’ area, lo sappiamo bene, può creare onde d’urto di enormi dimensioni, sia in Asia che in Europa. Certamente, come dice Yevtushenko, questo passaggio non è stato del tutto indolore. Ci sono stati scontri etnici, repressioni, tentativi di controllare i movimenti nazionali, ma ciò è accaduto a ben vedere soprattutto alla periferia del sistema imperiale russo, in Georgia, in Lituania, e così via. Nel corpo profondo della Russia il passaggio è stato relativamente pacifico. Questo ha indubitabilmente colpito gli osservatori. La visione di Yevtushenko, dunque, mi pare un po’ troppo apocalittica. Basti solo ricordare ciò che è successo in un altro paese post-comunista multinazionale come la Jugoslavia. C’è poi una seconda considerazione che mi sembra importante. Il crollo dell’Unione Sovietica ha avuto un rilievo epocale perché ha messo fine ad una superpotenza, seconda solo agli Stati Uniti, con il conseguente sconvolgimento degli equilibri e dei rapporti di forza che si erano stabiliti a livello mondiale, dopo la seconda guerra mondiale. La caduta dell’URSS ha messo fine al lungo dopoguerra, durato alcuni decenni e chiusosi proprio nel 1991.

D. Lungo dopoguerra che tuttavia era definito a sua volta come guerra, anche se fredda. Sergio Romano, in un saggio pubblicato sulla nostra Rivista, l’ha definita terza guerra mondiale, primo conflitto combattuto con mezzi non convenzionali conclusosi però, al pari delle guerre tradizionali, con la sconfitta di una delle due parti.

R. Non dimentichiamo che nella guerra fredda, guerra di attrito e di confronto, hanno giocato, oltre agli elementi di potenza militare, quelli economici propri dei modelli rispettivi. Questa particolarità, in un’epoca di crescente comunicazione fra Est e Ovest, ha determinato un processo di erosione dall’interno sia dell’Unione Sovietica che degli altri paesi comunisti dell’Europa orientale. La logica conclusione di tale processo ha aperto la fase attuale che, mi sembra interessante sottolineare, per la sua fluidità e indeterminatezza è possibile definire solo per sottrazione. Si parla del dopo guerra fredda, ma non siamo riusciti a coniare una definizione appropriata per questo nuovo periodo, in quanto non esiste ancora una situazione stabile e una definizione chiara dei rapporti di forza dopo la fine del bipolarismo. Un contrasto, quello bipolare, che, non è affatto secondario, oltre ad essere di potenza era anche ideologico. Il confronto capitalismo-comunismo, Stati Uniti-Unione Sovietica.
D’altro canto, lo ricordavo all’inizio, esiste ancora un dibattito non concluso volto a spiegare la complessità del processo che ha portato alla rottura Unione Sovietica-Russia e ad individuare le ragioni profonde dell’implosione del sistema. Esistono in argomento due principali linee di pensiero, che in parte si combinano. La prima sottolinea soprattutto le contraddizioni interne. Ritiene cioè che il regime comunista, che era stato in grado, sebbene attraverso tutte le violenze di cui Yevtushenko parla (guerra civile, collettivizzazione forzata, repressione staliniana), di porre le basi di uno sviluppo “moderno”, relativamente in grado di far avanzare la Russia sul piano economico e tecnologico, si sarebbe sostanzialmente esaurito. La seconda sottolinea invece che i sistemi chiusi e autoritari non permettono una piena fioritura dei sistemi economici. È ciò che è accaduto anche in altri paesi, ad esempio in Asia orientale (Corea, Taiwan) e forse domani avverrà in Cina. L’idea di fondo di questa seconda impostazione si collega, per dirla in termini marxisti, al rapporto tra struttura e sovrastruttura. Questo ragionamento mi fornisce lo spunto per fare un passo indietro e ritornare, per un attimo, al tema della domanda iniziale. In particolare, alla questione della persistente tendenza alla violenza, di cui parlava Yevtushenko con riferimento agli ultimi cento anni della storia russa. Nel passaggio dall’Unione Sovietica alla Russia, si è verificata da questo punto di vista una rottura storica radicale, anche se rimane aperta la questione su quanta continuità e quanto cambiamento si siano registrati nel passaggio. Tema che si colloca, qui convengo con la tesi avanzata, nella tradizione della storia russa. Questa è infatti da sempre caratterizzata da sconvolgimenti rivoluzionari, da passaggi drastici, violenti, con sequenze di scontri. Basti pensare alla guerra di Crimea, alla prima rivoluzione del 1905, a quella del 1917, alla seconda guerra mondiale. Tutto ciò accade perché, secondo una critica piuttosto diffusa rivolta alle élite e alla società russa nel suo insieme, è mancata quella capacità di operare gradualmente mediante riforme approfondite, unica alternativa per evitare questi passaggi traumatici e, tra l’altro, condizione necessaria a mio giudizio per un effettivo progresso e mutamento in positivo. I cambiamenti attraverso rotture, se non sono poi integrati a sviluppi graduali, portano ad effetti distorti, contrari agli obiettivi iniziali di emancipazione e di progresso. In questo senso, il mutamento così improvviso dell’inizio degli anni novanta, non previsto dagli osservatori occidentali né dagli stessi russi, rientra nella tradizione nazionale russa di attuare cambiamenti repentini, non assistiti da quel senso di responsabilità che dovrebbe avvertire una classe dirigente nel preparare gradualmente le riforme e portarle avanti.

D. Riformismo e gradualità presuppongono una vicinanza ai problemi del governo del territorio, per non imporre scelte centralizzate che non considerino sufficientemente le differenze. Un bel problema, in un paese tanto grande, con zone rurali molto vaste e aree lontanissime. Immagino che questo sia un elemento chiave per chi gestisce il governo del paese.

R. È un problema tradizionale della Russia. I russi lo chiamano rapporto centro-periferia. Si tratta di una questione complessa dovuta all’estensione del paese che, per quanto ridimensionato rispetto all’Unione Sovietica, resta comunque il più ampio del mondo. Si estende tuttora dal Baltico al Pacifico, dall’Asia Centrale alla Siberia, fino a lambire il Polo Nord.
Per inquadrare bene il problema della gestione di un territorio così vasto – ci sono dodici fusi orari di differenza tra la Russia e l’estremo oriente russo, una distanza maggiore di quella che passa tra Mosca e l’Europa – vanno considerate tutte le peculiarità del paese. La prima è che si tratta di uno Stato nuovo, di recente costituzione nella storia degli Stati, ma sovrapposto ad una nazione antica. Una nazione che si è sviluppata, per riprendere quanto già detto, attraverso violenze, guerre, conquiste e invasioni lungo l’arco di secoli. In questo troviamo un elemento di chiara contraddizione, che pone anche un problema di identità.

D. Identità che tuttavia, ad esempio all’inizio del secolo, era molto spiccata. Il novecento agli albori vede la Russia esprimere grandissimi scrittori, musicisti, artisti. S. Pietroburgo è una sorta di capitale culturale. Un paese tanto difficile da governare, nel quale sussistono marcate differenze tra alcune aree urbane e il resto riusciva ad esprimere tuttavia un’identità nazionale forte, insieme ad un non trascurabile nazionalismo.

R. Indubbiamente siamo in presenza della cultura di una grande nazione perché tale resta la Russia, non a caso riferimento anche di altre nazioni non russe già parte del sistema sovietico. La tradizione russa è di tipo imperiale e questo senso dei propri valori radicati nella storia è sentito in modo molto evidente. Rappresenta uno degli elementi di continuità tra l’esperienza sovietica e quella attuale, nel senso che tutta la simbologia sopravvissuta al periodo comunista, i vari monumenti, il mausoleo di Lenin, il fatto stesso che l’inno nazionale sia stato ripreso, dopo un dibattito molto aspro, dall’inno precedente, rendono evidente l’importanza della continuità della grande tradizione nazionale russa. Questo aspetto è interessante poiché è forse l’unico in cui emerge una forte nostalgia del periodo sovietico. Non si tratta di nostalgia per il precedente regime, fatta eccezione per un gruppo ristretto di nostalgici fedelissimi, ma di un sentimento, presente nelle élite e nell’opinione pubblica in generale, di nostalgia per quella grandezza russa di cui l’Unione Sovietica si faceva in qualche modo portatrice. La simbologia cui prima accennavo si lega insomma all’ aspetto nazional-patriottico, assai più che a quello ideologico.
L’esame della problematica identitaria e nazionale non può trascurare un elemento molto significativo cioè il ridimensionamento territoriale della Russia, da cui derivano molte conseguenze. La Russia attuale è confinata in quella che era, all’incirca, la Moscovia, quell’area al centro della Russia europea da cui poi è partita l’espansione russa nelle varie direzioni. La Russia torna oggi un po’ alle sue origini, con la sola eccezione, che comunque controlla ancora la parte asiatica, ossia la Siberia e l’Estremo Oriente. Il ridimensionamento da formazione imperiale a Stato nazione ha portato alla perdita di circa un quinto del territorio e di un terzo della popolazione. Bisogna però considerare un aspetto non secondario. Nella nuova Russia il problema della dimensione è accentuato dalla natura multinazionale del paese. Un conto è governare un paese etnicamente omogeneo, altro è guidare un paese multietnico. La soluzione prescelta dal Cremlino è stata quella di una struttura federale che in qualche modo riprendesse il principio federale-territoriale del periodo sovietico. La Russia è organizzata in 89 entità amministrative, regioni, repubbliche, territori, di cui alcune, e la Cecenia ne rappresenta il caso estremo, hanno una connotazione etnica specifica, con una propria identità non russa. Il problema dei rapporti non è solo legato allo spazio, ma anche all’appartenenza etnica. Consiste cioè nel cercare di mantenere rapporti equilibrati tra un centro e una periferia, che si esprimono ad esempio sulle seguenti lunghezze: la Russia da una parte, l’Estremo Oriente e il Caucaso settentrionale dall’altro.
Nella nuova Russia, l’80% circa della popolazione, quindi la maggioranza, è russa. Ma il 20%, cioè un cittadino su cinque, è un non russo. Di questo 20%, altro aspetto importante, circa la metà (alcuni dicono di più) è di fede musulmana. Questo introduce un ulteriore tema di differenziazione, la diversità delle fedi religiose. La maggioranza russa è ortodossa. L’ortodossia è la religione ufficiale dei russi. Il grande russo è un ortodosso, anche se la Chiesa ha perso molto della sua influenza a causa dell’esperienza sovietica. L’importanza dell’ortodossia, strumentalmente sfruttata da Putin, nasce dal fatto che l’appartenenza religiosa rafforza il sentimento di coesione nazionale russo. Ricordo a beneficio dei Lettori che in Russia esistono quattro religioni riconosciute ufficialmente: quella ortodossa, quella ebraica, quella islamica e quella buddista. Ciò pone un problema, al quale accennavamo, di discriminazione nei confronti di altre religioni, ad esempio la Chiesa cattolica. Il Papa non è mai riuscito a realizzare, come auspicava, un viaggio a Mosca. Esiste un antico contrasto tra l’ortodossia e il cattolicesimo, soprattutto in Ucraina dove è praticata questa forma particolare di cattolicesimo che è il cattolicesimo uniate. Bisogna poi tener conto della storica contrapposizione tra Polonia cattolica e Russia ortodossa e del tentativo della Chiesa ortodossa di bloccare l’evangelizzazione in Russia da parte di gruppi evangelici protestanti, in particolare di origine americana. Siamo, in sostanza, in presenza di un problema complesso i cui termini sono: territorio, appartenenza etnica e religione.

D. Le presidenziali di marzo seguiranno a breve scadenza le elezioni della nuova Duma. Mentre la rielezione di Putin è ritenuta dai principali osservatori inevitabile, maggiori incognite presentano gli equilibri politici in fieri tra i cinque principali partiti politici rappresentati nella Duma, determinanti per intuire la linea che il presidente russo seguirà nel suo più che certo secondo mandato. In particolare, non emergono chiaramente blocchi omogenei che possano ispirarsi alle correnti fondamentali d’ispirazione liberale, socialdemocratica ovvero conservatrice. D’altro canto, se è vero che in Occidente è ben nota la figura del leader russo, minori informazioni circolano sul quadro politico, sui valori ispiratori e le basi di consenso dei partiti.
Potrebbe indicare, a beneficio dei nostri Lettori, le caratteristiche più significative sul quadro istituzionale russo, anche con riferimento ai rapporti costituzionali tra Presidente e Duma?


R. Per giudicare l’assetto e la fisionomia del regime russo occorre guardare al quadro istituzionale e alla realtà politico-amministrativa che ne è sottesa. Formalmente, con l’avvento di Putin il sistema istituzionale si è consolidato e in parte razionalizzato. Ma resta un regime che, al di là dell’apparenza di regime forte, presenta al suo interno ancora una serie di contraddizioni che non ne garantiscono la forza nei termini in cui può apparire all’esterno. La ragione di ciò va tra l’altro rintracciata, torniamo di nuovo al tema continuità-mutamento, nel mancato ricambio di personale e nelle carenze del processo di riforma, che sarebbe dovuto avvenire in profondità, senza i quali non si può parlare di una cesura sostanziale con il passato.
Non che si possa temere un ritorno al regime comunista. La cesura in questo senso è definitiva. Gli effetti di progresso e di emancipazione determinati dal superamento del totalitarismo anche se accompagnati a pesanti costi sociali sono generalmente sentiti in positivo dalla maggioranza della popolazione. Ma è ugualmente evidente che non si può ancora parlare di un regime basato a tutti gli effetti sui principi di democrazia, economia di mercato, Stato di diritto. Anche gli osservatori occidentali meno prevenuti – è il caso di un recente articolo dell’Economist – pur sottolineando la ripresa economica di questi ultimi tempi, non possono non evidenziare la persistenza di elementi politici neo-autoritari. La fase di transizione che la Russia sta vivendo esprime in altre parole una combinazione di tratti. Da un lato elementi propri del vecchio autoritarismo, statalismo sia pure in veste diversa, dall’altro elementi di novità di tipo pluralista-democratico. Per dare un nome a questa strana condizione i russi hanno coniato un termine efficace. Si parla sempre più spesso di regime ibrido.
L’assetto post-comunista è di tipo presidenziale, si richiama ai valori occidentali ma non a caso, secondo una tradizione che affonda le radici già nell’epoca zarista, nel recepirne i modelli e le istituzioni li adatta alle tradizioni e alle strutture particolari della Russia: l’essere un paese di grande estensione, il non poter contare su una salda tradizione democratica, e così via. Non a caso la forma presidenziale ha assunto i connotati di un superpresidenzialismo che, secondo la tradizione nazionale, consente un’accentuata capacità di controllo centrale, elemento ritenuto indispensabile per mantenere la stabilità e l’unità del paese. L’unità territoriale russa è un elemento di grande importanza in questo quadro. Il caso della Cecenia riveste tale drammaticità proprio perché pone in dubbio, sia pure nella lontana periferia del sistema, questa unità. Non c’è dubbio che il Presidente Putin ha saputo approfittare degli strumenti istituzionali che la situazione rendeva disponibili, cioè la possibilità di gestire una presidenza forte, che, grazie al dettato costituzionale, gli conferisce ampi poteri sia in materia di politica estera che interna. Almeno apparentemente, l’attuale Presidente rappresenta l’uomo forte, arbitro e perno del sistema. Ho usato di proposito il termine apparentemente perché, anche a causa dell’opacità dei meccanismi decisionali, non è ancora sufficientemente chiaro, come del resto sottolineano molti osservatori, quale reale capacità di direzione il Presidente possa effettivamente esercitare sul sistema politico ed economico. Infatti, al di là del dato istituzionale che assegna alla Presidenza, in quanto nucleo forte dell’Esecutivo, un potere preponderante, esiste una questione relativa ai contenuti di questo sistema. Mi riferisco, per esempio, al peso dei cd. oligarchi, ossia di quei nuovi ricchi, dirigenti ex-comunisti che hanno approfittato dei processi di privatizzazione, gestiti in larga misura illegalmente se non addirittura con il supporto della criminalità, che oggi sono a capo di complessi economici oligopolistici molto influenti, in particolare nei settori dell’energia e delle banche. L’arresto di Mikhail Khodorkovsky, con le conseguenti dimissioni del potente capo dell’Amministrazione del Cremlino, Aleksandr Voloshin, solo di qualche giorno fa, hanno aperto una nuova pagina nel rapporto tra potere politico e nuovi ricchi, oramai con interessi significativi anche nel sistema dei media e non celate ambizioni politiche, tutta da scrivere ed interpretare. Non c’è dubbio che la loro capacità di condizionamento a diversi livelli dell’apparato economico-amministrativo, fino ad arrivare alla Presidenza, è stata ed è molto forte. A mio avviso, è tutto da chiarire se sia Putin a controllare queste lobbies potentissime, portatrici di interessi particolari, che approfittano di uno Stato e di un’Amministrazione vulnerabili alla corruzione, come evidenziato anche dalla stampa russa e non solo dalle critiche occidentali, e quanto sia invece egli stesso condizionato da questi gruppi. Si tratta di un rapporto dialettico, di contrapposizione in cui non si capisce bene chi controlla chi, tuttora in fieri. Solo il tempo dirà se l’affondo di questi giorni contro gli oligarchi sia un segnale di forza o di debolezza del sistema, con le conseguenze che ne derivano.
La mia impressione – condivisa anche da altri osservatori che di recente hanno avuto modo di commentare i fatti della Russia – è che Putin abbia scelto di lasciare ai gruppi oligopolistici il ruolo di potentati economici a sostegno del regime, tracciando un preciso confine: impedire a questi gruppi di trasformare questa loro forza economica in forza politica. Si tratterebbe di una divisione di compiti. Episodi come il già richiamato arresto di Mikhail Khodorkovsky, giovane magnate del petrolio a capo del colosso petrolifero Yukos, sembrerebbero confermare queste ipotesi ove solo si consideri che quest’ultimo, in vista delle elezioni di fine 2003, aveva finanziato i partiti di opposizione, non nascondendo ambizioni di ascesa personale anche mediante l’acquisto di mezzi d’informazione come i giornali, ultima roccaforte finora sottratta da Putin agli interessi degli oligarchi nella società russa.
Va poi considerato che abbiamo assistito, e questo costituisce un altro elemento di continuità con il passato sovietico, alla riconversione massiccia, quasi totale, della ex nomenklatura di partito e del K.G.B. nei quadri statali russi. La combinazione fra le pressioni delle lobbies economiche e la presenza di una simile dirigenza nell’amministrazione politica è un fenomeno specificamente russo che non si è verificato negli altri paesi post comunisti dell’Europa Orientale, almeno in termini così evidenti, durante la transizione. Occorrerà, a mio avviso, un passaggio generazionale perché si arrivi ad una cesura totale, anche sul piano del personale, rispetto al vecchio regime. Questo aspetto è evidentemente molto rilevante, perché i gruppi che attualmente dominano l’apparato amministrativo e politico sono portatori di un retaggio, di una mentalità, di un atteggiamento che è quello del governo dall’alto e che tende a privilegiare la politica fondata sulle prerogative dell’Esecutivo, secondo la consueta logica centralizzatrice.
È in questo quadro che si pone la questione della Duma, organo che rappresenta, insieme al Consiglio della Federazione, il potere legislativo. La Duma attuale, eletta con Putin, segnando una rilevante discontinuità con il periodo eltsiniano, risulta fortemente appiattita sulle decisioni della Presidenza (1) . Il rapporto a livello istituzionale, considerata la rilevanza delle prerogative del Presidente e la debolezza intrinseca del sistema partitico, a lungo dominato dal totalitarismo e dall’autoritarismo, non aiuta a sviluppare un sistema di divisione ed equilibrio dei poteri. Esiste in Russia un deficit di democrazia che condiziona fortemente il gioco dei partiti. È evidente che a tale condizionamento non è estranea la circostanza che il partito di governo, l’Unione Russa, insieme agli altri gruppi presenti nella Duma che gli sono allineati, come quello di Zhirinovskij, nazionalista a parole ma di fatto alleato al governo, godono del sostegno dell’apparato amministrativo e controllano fortemente i media, aspetto che oggi viene criticato in Occidente anche dagli osservatori più favorevoli o più ottimisti rispetto alla situazione. Anche l’ambito della comunicazione, insomma, non è estraneo alla dicotomia che esiste tra potere politico e potere economico. È ovvio, vista l’importanza della comunicazione per il potere politico oggi.
I partiti di governo dominano, anche numericamente, la Duma (2) . Le decisioni vengono quindi adottate e ratificate, come ricordavo poco fa, con molta più facilità di quanto non avvenisse con Eltsin che, avendo con la Duma un rapporto fortemente conflittuale, aveva maggiore difficoltà a farla cedere alle sue pressioni.
Se analizziamo in profondità il sistema istituzionale russo, d’altro canto, non possiamo non osservare che quello che manca oggi alla Russia sono i partiti di opposizione. O meglio, esiste un partito di opposizione che ha un suo seguito ed è il partito comunista. Ma, altra anomalia russa rispetto ai paesi post comunisti dell’Europa Orientale, si tratta di un partito non riformato, che non ha fatto in alcun modo, neanche opportunisticamente, una scelta socialdemocratica. È un partito conservatore che gioca in pieno anche la carta nazionalista, nel senso che dicevamo prima. Siamo in presenza di una singolare anche se non nuova combinazione tra nazionalismo e comunismo. Questo partito non costituisce una sfida effettiva al partito di governo. È un partito residuale, concentrato in aree specifiche, anche rurali, e gode di una base soprattutto nella vecchia generazione. Potremmo cinicamente prevedere che sarà sufficiente attendere il passare del tempo per assistere all’esaurimento di questo partito (3) . Esistono, poi, altri due partiti di opposizione, di ispirazione liberale e socialdemocratica, ma si tratta di partiti di limitato rilievo. Sono Jabloko e il partito di Alleanza di Destra. Si tratta di partiti moderati e riformisti, rappresentativi di ceti ristretti, ossia di quei nuclei più avanzati di opinione pubblica di cui si parlava, concentrati soprattutto nelle grandi città come S. Pietroburgo e Mosca. Sono partiti che fanno testimonianza, opinione, ma non incidono sul potere politico e quindi possono limitarsi ad una sola funzione di critica.
Non esiste d’altro canto in Russia un sistema politico che permetta l’alternanza. Quello attuale è un sistema che opera di fatto per cooptazione. Fino a quando non ci saranno le premesse per garantire un’alternanza di governo saremo di fronte, tanto per usare un termine eufemistico, ad una democrazia controllata, ad una democrazia, come sottolineano gli stessi russi, diretta dall’alto.
Data questa situazione di squilibrio e condizionamento del regime, la speranza di un effettivo progresso delle riforme ricade oggi interamente su Putin. Il centralismo ha una sua forza. Costituisce un’anomalia che si presta a più di un interrogativo, se si analizza la situazione da una prospettiva occidentalcentrica. È tuttavia rispondente alla cultura politica russa. La personalizzazione del potere si riconduce ad una tradizione secolare che, richiamando un motivo storico-psicologico interessante, costituisce una delle ragioni della popolarità di Putin. Si tratta della tradizione dello Tsar buono, Alessandro II, o del segretario di partito riformatore, Gorbachev, entrambi, forse non a caso, leader che hanno fallito. Su Putin, insomma, ricade l’onere maggiore di promuovere, nei limiti in cui gli sarà possibile farlo, una linea politica di cambiamento in profondità della società russa. Se è vero che la stabilità rappresenta un’acquisizione relativamente assodata, essa è basata anche su elementi di potere che, come abbiamo visto, sono contradditori. In particolare, emerge con forza la contraddizione, per così dire, intrinseca, tra stabilità e riforme. Se non si realizzano le riforme, la stabilità resta in qualche modo precaria, diventa stabilità che tende a degenerare in stagnazione. Ma le riforme vanno comunque portate avanti. Questo è il grande dilemma di Putin, che emerge in particolare in prossimità delle elezioni in quanto operare le riforme significa procedere a tagli che incidano sul sociale, con tutto quello che ciò implica in termini di consenso al regime.

D. L’apertura dell’economia russa ai capitali stranieri, le varie forme di liberalizzazione e privatizzazione, la circolazione di una maggiore ricchezza, l’esigenza di modernizzare l’apparato produttivo e il sistema delle infrastrutture, di formare quadri dirigenziali all’altezza dei nuovi compiti, con tutte le contraddizioni che esistono e che sono ben note, pongono problemi di non poco momento all’attuale establishment. Questo si trova a dover garantire, non rinunciando a giocare una propria partita, l’apertura del Paese e la sua crescita, senza compromettere né i poteri d’indirizzo politico né il controllo dei poteri economici forti, quasi sempre legati al vecchio regime e formatisi nelle pieghe di un processo di privatizzazione piuttosto approssimativo. Questioni che si intrecciano, come ricordavamo, alla sfida lanciata ai c.d. oligarchi e alle situazioni monopolistiche in settori chiave come quello energetico, in via di totale privatizzazione. Elemento di ulteriore complicazione è rappresentato dall’influente presenza di gruppi borderline con organizzazioni criminali e dall’antica piaga della corruzione. In relazione a quest’ultimo punto, riferiva Il Sole 24 ore alla fine di agosto di una ricerca della Fondazione moscovita Indem che ha stimato gli introiti dell’industria della corruzione per un importo pari al 9% del Pil della Russia.
Qual è lo stato di salute dell’ economia russa e quali le sfide più importanti del prossimo futuro?


R. Il problema dell’economia è indubbiamente cruciale per la Russia. Anche perché, nell’epoca della globalizzazione e di crescente competizione internazionale, si lega in qualche modo a quella dimensione politico-psicologica di cui parlavamo prima: la nostalgia, l’aspirazione a tornare ad essere una grande potenza, a riacquistare prestigio, forza. È evidente, Putin l’ha chiarito molto bene, che solo una mobilitazione delle risorse economiche ed umane interne può portare alla rinascita in termini di potenza della Russia. Questo sforzo per rilanciare l’economia è legato non solo alla volontà di prosperità interna, con ciò che ne deriva in termini di consenso e legittimazione, ma anche al desiderio di restituire alla Russia un ruolo di primo piano a livello internazionale. Tale ruolo, tra l’altro, non è e non deve essere più quello della grande potenza militare di tipo sovietico, bensì quello di una potenza moderna in cui la dimensione militare si combina a quella economico-civile, portatrice se non proprio di modelli, certamente di valori.
In questo senso, esiste un nesso forte fra la volontà di affermazione nell’ambito della politica internazionale e l’esigenza di procedere, dall’interno, a riforme basate fondamentalmente sulla ripresa dell’economia. In Russia si è effettivamente verificata una ripresa dell’economia. Negli ultimi tre anni si sono registrati tassi di sviluppo che si aggirano mediamente sul 5%, laddove per molto tempo si era verificato addirittura un calo dei tassi piuttosto che una crescita. Si tratta, è vero, di una forma di sviluppo fondamentalmente basata sull’esportazione di prodotti energetici (petrolio e gas). Bisogna quindi capire se il surplus che deriva dagli introiti della vendita di questi prodotti, che oggi godono di un mercato mondiale molto favorevole, verrà poi tradotto in sviluppo industriale, in creazione di ricchezza. Per ora, i sintomi positivi di queste variazioni sono limitati, anzi si è verificata una fuga di capitali russi all’estero dell’ordine di molti miliardi di dollari all’anno, principalmente diretti in Occidente e impiegati in investimenti immobiliari e finanziari. Non è estraneo a questi discorsi un profilo criminale. Si sono verificati scandali anche con la Bank of America per attività di riciclaggio di denaro. Esiste in Occidente il timore, è inutile minimizzarlo, che si verifichi una sorta di spill over criminale, verso l’esterno. Ma Lei mi chiedeva della criminalità sul versante interno. In Russia esiste una criminalità che, per quanto possibile, è istituzionalizzata, ha cioè penetrato il sistema, favorisce la corruzione e può assumere anche connotati molto violenti. La Russia di oggi è un paese molto violento. La criminalità è un cancro del sistema che, come sempre accade quando si raggiungono certi livelli, va ad incidere sulla produzione della ricchezza e gode di una posizione di rendita parassitaria molto significativa.
Ritornando alla questione dell’economia più in generale, esistono almeno due altri ordini di problemi da considerare. Il primo riguarda la capacità del regime di mobilitare risorse. Fino a che punto, ci si domanda, un regime con le caratteristiche che abbiamo delineato è in grado di assumere una funzione di guida, di mobilitazione? Fino a che punto, per dirla in termini politici, è in grado di attuare uno sviluppo che garantisca il progresso dell’interesse nazionale rispetto agli interessi particolari dei vari gruppi e delle diverse lobbies? Le risposte a tali interrogativi devono superare una questione preliminare: se e quanto lo Stato russo, al di là della sua imponenza amministrativa-burocratica, sia effettivamente uno Stato forte, in grado di imporsi con una progettualità di tale portata.
Il problema non consiste solo nella mobilitazione delle risorse interne, ma anche nella capacità di realizzare un’apertura verso l’esterno che, nel rispetto delle esigenze della propria autonomia economica, risulti funzionale allo sviluppo interno. Sotto questo profilo, il partner privilegiato è ovviamente l’Occidente, ma in generale interessano tutti i paesi avanzati al centro del meccanismo della globalizzazione e dell’espansione economica: l’Europa, gli Stati Uniti, il Giappone, ecc.. La Russia può beneficiare in questo senso di un’attitudine positiva, in quanto le forze economiche occidentali hanno tutto l’interesse a penetrare quello che si presenta come un mercato enorme, costituito da qualcosa come 145 milioni di abitanti, da un territorio immenso, da enormi ricchezze naturali (petrolio, gas, oro, legname). Le potenzialità sono dunque molto forti. Tuttavia, a causa delle carenze dell’assetto amministrativo-burocratico e, soprattutto, della mancanza di certezza del diritto (basti pensare, ad esempio, alle carenze in materia di diritto societario, apparato bancario) non esistono ancora le condizioni indispensabili a garantire quella sicurezza degli investimenti necessaria affinché questi arrivino nel paese.
Anche per questa ragione la questione delle riforme è tanto complessa. È necessario riformare anche per rilanciare l’economia interna e per garantire che questa possa essere sostenuta dagli investimenti che vengono dall’esterno. Ciò vale in particolare per i settori tecnologicamente più avanzati. In Russia esiste il problema dell’ammodernamento delle infrastrutture. Tutte le infrastrutture, dai ponti, alle strade, alle ferrovie, agli oleodotti, agli stessi complessi abitativi, sono di vecchia data. È quindi necessaria un’operazione enorme di ammodernamento che, senza massicci investimenti, soprattutto di qualità, da parte occidentale, non può avere successo. E questa situazione indubbiamente non può non condizionare la politica estera russa.
Politica estera che ha come ambizione anche quella di garantirsi un ruolo sul piano internazionale. Lo si è visto in molte occasioni, nella crisi in Iraq come nei rapporti con l’Unione Europea. Tuttavia l’aspetto prevalente al momento è quello che Putin, come altri, ha definito di economicizzazione della politica estera, conferendo prevalente importanza ai rapporti economico-commerciali con l’Occidente ma anche, questo è un ulteriore motivo di ambiguità della politica russa, con paesi come la Cina, l’India o l’Iran che, per motivi politico-strategici, possono destare – si pensi all’Iran per quanto riguarda il nucleare – forti preoccupazioni in Occidente. Anche nella gestione della politica commerciale ed economica, quindi, la Russia deve essere in grado di portare avanti con equilibrio quella che si chiama una politica multilevel, tout azimout, multilaterale. L’Occidente resta il partner principale, ma sotto il profilo economico grandi clienti della Russia sono anche altrove, soprattutto quei paesi interessati all’acquisto di prodotti militari, nucleari in particolare. Non è solo la complessità del quadro che siamo venuti descrivendo a caratterizzare i temi oggetto della nostra osservazione. C’è anche una questione di eredità. L’economia nei primi anni del post comunismo si è indebolita anche perché l’economia precedente era distorta, produceva prodotti invendibili. È stato indispensabile un processo di eliminazione delle vecchie strutture che ha determinato ritardi e costi. Oggi assistiamo ad una certa ripresa, ma se la Russia vuole tornare a recitare un ruolo da grande potenza non può limitarsi a svolgere il ruolo di fornitore di materie prime ai paesi avanzati. Questa è la posizione propria di paesi, se non sottosviluppati, certamente non avanzati in senso occidentale, che assegnano importanza prioritaria alla sola produzione energetica, ad esempio l’Arabia Saudita.

D. Da questo punto di vista, molto importante è anche la legislazione, che deve essere in grado di garantire il controllo su questi processi, per evitare che il paese tragga benefici limitati dalla sua apertura. Nei primi anni novanta molte aziende occidentali hanno usato la Russia come una vetrina. Quando si tratta di pensare ad investimenti importanti, è invece necessario che il paese offra alle aziende straniere un quadro complessivo, un ambiente tale, idoneo a produrre ricchezza. Se i beni prodotti non possono essere acquistati dal cittadino russo perché questi non guadagna abbastanza, il circuito virtuoso dell’economia non si mette in moto.

R. È significativa la differenza tra il livello degli investimenti stranieri in Russia, ancora molto limitato, e quello in Cina, di circa dieci volte superiore. Per quanto autoritario possa essere il regime cinese, evidentemente offre maggiori garanzie. Esiste, voglio dire, una sinergia tra sviluppo interno e rapporti esterni. Questo è avvertito, in verità, in modo molto chiaro dalla dirigenza russa. Altro problema è quello legato all’adesione della Russia all’Organizzazione del Commercio Mondiale (WTO). La Russia, al fine di attirare e garantire gli investimenti esteri, deve risolvere due problemi fondamentali. In primo luogo diventare uno Stato di diritto, altrimenti lo sviluppo non progredirà, favorendo un ambiente idoneo agli investimenti esterni. In secondo luogo deve far sì che la sua apertura verso l’esterno non si traduca in una condizione di dipendenza, problema che si è già posto per altri paesi. Ricordiamo che la Russia rappresenta un caso particolare: non è un paese sottosviluppato ma, piuttosto, sviluppato in modo distorto, con enormi potenzialità, anche umane, che nell’auspicio di molti lo porteranno in futuro a proporsi a pieno titolo come paese avanzato. Tutto ciò tenendo presente quella tipica preoccupazione dei russi, radicata nel forte sentimento di identità nazionale e patriottica, che li porta a dire: “non siamo un paese di seconda fila, ma una grande potenza e quindi dobbiamo poter trattare con gli altri paesi alla pari”. Questa è la ragione per la quale sussiste una reale volontà di apertura, ma a determinate condizioni. Il problema è ancora una volta l’esistenza di un’amministrazione e di una legislazione in grado di garantire una gestione efficiente.
Circa l’esistenza di un ceto dirigente imprenditoriale adeguato, bisogna dire che la continuità con la nomenklatura comunista precedente ha investito anche il ceto imprenditoriale. La nomenklatura controllava infatti l’economia, oltre al potere politico. Molti dei responsabili attuali provengono da questa esperienza. Il che non significa che non ci possano essere personaggi molto capaci, come ce ne erano anche in Unione Sovietica. Indubbiamente la continuità degli atteggiamenti non favorisce però una mentalità imprenditoriale in grado di operare sul mercato mondiale, con la rapidità e la flessibilità proprie di un capitalismo molto agguerrito. Tutto questo manca senza dubbio nella Russia di oggi.
Senza cadere nello stereotipo, non mi pare irrilevante sottolineare che esiste anche una tendenza russa alla passività, sia essa burocratica o psicologica, che ostacola un progresso in questo senso. Tutta la letteratura russa è specchio di questa caratteristica. Così come esiste, d’altro canto, il complesso storico della Russia di essere rimasta ai margini, in ritardo, rispetto all’Occidente. Si sono fatti sempre sforzi enormi per colmare questo divario ma, questo è il paradosso, con mezzi tali da produrre effetti controproducenti rispetto ai fini che ci si proponeva. Il frequente ricorso a mezzi coercitivi, da Pietro il Grande in poi, altera la possibilità di portare avanti un progresso effettivo. Non sussistendo una tradizione gradualista e riformista, come dicevamo all’inizio, si procede a salti violenti e rotture che finiscono poi per creare altri problemi.
Anche per i quadri dirigenziali, non resta che puntare ad un cambio di generazione, che però deve avvenire in un contesto più avanzato che permetta il fiorire dell’imprenditorialità latente. L’esistenza di strutture monopolistiche e oligopolistiche, di controlli da parte di organizzazioni criminali, sono tutte queste realtà che rendono difficile per le piccole e medie imprese emergere, impedendo così l’affermazione di quella imprenditorialità (diffusa) che costituisce il tessuto connettivo fondamentale di ogni sistema economico.

D. Il sistema della formazione dovrebbe giocare allora un ruolo fondamentale. La Russia è accreditata di una tradizione di efficienza del sistema delle scuole e delle università. Nell’ambito dei suoi contatti accademici intravede un certo dinamismo culturale all’interno delle università? Esiste qualcosa di nuovo che cerca di confrontarsi con la realtà attuale o siamo in presenza di un sistema sostanzialmente immobile?

R. Sicuramente esiste una consolidata tradizione per i settori tecnici e di punta, come la ricerca spaziale. Ciò vale per i matematici come per gli informatici. Purtroppo la caduta degli investimenti nella ricerca, con la conseguente fuga dei cervelli, ha creato anche nel campo dell’istruzione e della ricerca una situazione grave. Durante il regime sovietico si arrivava a sovvenzionare persino situazioni parassitarie, non meritevoli. Ora si è passati all’eccesso opposto, attraverso drastici tagli di spesa.
Esiste un dinamismo culturale piuttosto disordinato. Se si guarda alla produzione letteraria e cinematografica, non si trova nulla di particolarmente importante, con qualche eccezione ovviamente. Siamo ancora in una fase di passaggio, per cui esiste confusione anche in questo settore. Tutto il dinamismo culturale sovietico era sostenuto dall’aiuto dello Stato. Questa situazione ormai si è esaurita e non c’è ancora, se non in modo limitato, l’effetto delle forze del mercato né l’impatto di una tradizione di mecenatismo.

D. Il conflitto in Cecenia ha assunto da tempo connotati di estrema gravità, non solo nella regione, ma anche fuori dal Caucaso, con attentati suicidi che hanno scosso l’intero Paese, di cui si segnala una particolare recrudescenza negli ultimi tre mesi. Intorno allo scontro in Cecenia ruotano numerose questioni, una per tutte l’Islam. Il punto è assai controverso. Mentre Putin esalta, ne parlavamo all’inizio, la rinascita religiosa e spirituale come una delle principali conquiste dell’ultimo decennio, da ultimo a Sarov alla fine dello scorso mese di luglio, organizzazioni islamiche denunciano persecuzioni e i rapporti con il Vaticano sono connotati da indubbia freddezza. Secondo alcuni, il terrorismo islamico ed Al Qaid’a in particolare perseguirebbero un’unica strategia, dall’Iraq all’India alla Cecenia. Tale consapevolezza avrebbe tra l’altro indotto a perseguire uno storico accordo di collaborazione tra la Russia e l’Arabia Saudita, denunciata in passato per sospetti finanziamenti alla guerriglia cecena, di cui è stata data notizia all’inizio di settembre e che comprende appunto un’intesa sulla lotta al terrorismo. Tale accordo, in un periodo di raffreddamento dei rapporti tra l’establishment saudita e gli Stati Uniti, è destinato tra l’altro ad avere un peso sulle relazioni internazionali dell’area.
Qual è dal Suo punto di vista la reale portata della questione islamica in Russia e quali gli altri risvolti del conflitto ceceno rilevanti sull’equilibrio politico russo e sulle relazioni internazionali?


R. Il conflitto ceceno è drammatico. La seconda guerra, iniziata nel 1999, si trascina ancora oggi con estrema violenza e grandi distruzioni. La sua rilevanza va letta nel quadro dell’assetto federale multinazionale. Rappresenta, cioè, un caso estremo di quel difficile rapporto centro-periferia di cui parlavamo in precedenza. È tuttavia un caso unico nel suo genere, perché la Cecenia è l’unica regione in cui c’è stata una ribellione aperta rispetto al potere centrale, con la richiesta più radicale, cioè l’indipendenza. Il fatto che la ribellione cecena non si sia allargata ad altre regioni sta ad indicare che il rischio, da alcuni paventato, di una tendenza all’interno della Russia che l’avrebbe portata a seguire la stessa strada dell’Unione Sovietica, cioè quella della disgregazione, non va esagerato, anche se ci sono analogie con la situazione sovietica quali la vastità del territorio della Russia e il suo carattere multinazionale.
Esiste, è chiaro, un problema di gestione delle minoranze etniche che assume l’ulteriore tratto della dimensione religiosa. In questo contesto generale si colloca il caso della Cecenia. Nonostante il peso molto limitato della popolazione, che costituisce l’1% della popolazione russa complessiva, e del territorio, che equivale a meno dello 0,5% del territorio totale russo, la guerra in Cecenia ha creato al regime russo problemi molto seri. Il rilievo di questa ribellione separatista sta nel fatto che essa ha contrapposto due valori fondamentali: quello dell’autodeterminazione dei popoli, codificato anche nella Carta delle Nazioni Unite, che legittima le rivendicazioni di indipendenza, e l’altro, fondante il sistema internazionale, d’intangibilità della sovranità e dell’integrità territoriale. Ciò in una fase storica in cui fenomeni analoghi, conflitti a carattere intrastatale-etnico, sono diffusi a livello mondiale. In questo senso la Cecenia è un episodio, tra i tanti, che sono una delle maggiori cause di instabilità nel sistema internazionale. I ceceni sono un gruppo limitato, ma con un forte senso della propria identità, solo in parte religiosa, anche se indubbiamente cresciuta a seguito del confronto con la Russia. Lo scontro ha accentuato in entrambe le parti il sentimento nazionalista, ma non si tratta di una guerra etnica in senso classico, come quella, ad esempio, in Jugoslavia. Basti dire che centomila ceceni abitano a Mosca. Si possono immaginare centomila croati che abitano a Belgrado? Sicuramente subiscono delle discriminazioni, ma non c’è ostilità sistematica fra le popolazioni. C’è piuttosto uno scontro nella regione tra le forze di occupazione russe e quella parte della popolazione cecena che è allineata con i ribelli. La contrapposizione tra sovranità russa e diritto all’autodeterminazione cecena è la ragione chiave del conflitto.
Altro elemento su cui riflettere è la persistenza di questo conflitto. Come mai non si riesce a chiudere, considerata la sproporzione, di mezzi e di uomini, tra le forze rispettive? La risposta è tutt’altro che agevole.
In primo luogo bisogna considerare la collocazione e la natura del territorio ceceno. Montagnoso e impervio, ha tutte le caratteristiche per favorire una guerriglia di resistenza, soprattutto se, come in questo caso, sostenuta da un parte della popolazione, sebbene esista anche un segmento di ceceni schierati con i russi.
In secondo luogo, la forte identità cecena ne fa una nazione combattente indomita. Lo stesso Solzhenitsyn, nei suo libri sui gulag, parla dei ceceni deportati e racconta di come tutti se ne tenevano a distanza perché si trattava di un gruppo molto omogeneo e capace. Esiste da tempo, quindi, una visione e una percezione dei ceceni come gruppo a parte. Ricordiamo che la guerra tra russi e ceceni è iniziata alla fine del 1600 ed è continuata nel 1800. L’espansione russa nel Caucaso ha trovato, da sempre, nei ceceni i suoi avversari più irriducibili. Anche nel periodo sovietico ci sono state repressioni. Stalin ha realizzato nel 1944 una deportazione di massa dei ceceni accusandoli di aver collaborato con i tedeschi invasori della Russia.
Il nodo ceceno è insomma una costante della storia russa che richiama un contrasto di natura etnico nazionale ma non si esaurisce in questo. È un conflitto che ha radici molto profonde e quindi una forza intrinseca cui corrisponde l’inefficienza della forza militare russa. Chiaramente la persistenza del conflitto non è dovuta solo alla capacità combattiva delle forze cecene, anche se legate a forme di terrorismo, persino suicida, portate fuori del territorio del conflitto. Un ruolo riveste anche l’inettitudine, la corruzione dell’esercito russo. In Cecenia sono presenti fra i 50.000 e i 100.000 uomini e la politica condotta dal governo centrale, con estrema violenza, non ha portato a ben vedere ad alcun risultato, sebbene ormai si tratti di un conflitto a bassa intensità, una guerriglia diffusa.
A favore della resistenza cecena gioca certamente il sostegno dall’esterno, anche se è oggetto di discussione la sua reale rilevanza e più in generale quanto conti il contesto generale di ripresa del fondamentalismo e dell’estremismo islamico. Quanto i ceceni, in altri termini, beneficino in termini di finanziamenti, volontari, armamenti in questo nuovo quadro in quanto islamici. Il discorso è complesso. Da parte russa c’è un tentativo, dovuto a ragioni di immagine, di attribuire una dimensione esterna alla ribellione cecena. Ciò, infatti, legittimerebbe molto l’azione interna del governo volta a ristabilire il controllo del centro in quella zona in nome della lotta al terrorismo internazionale. Devo dire che il problema ceceno è molto controverso perché combina, come in altri casi, quelli che sono, a mio parere, elementi di un autentico movimento di liberazione nazionale con elementi che invece sono propri del terrorismo, se non del banditismo. Basti pensare agli attacchi suicidi, ai rapimenti, ecc.. Siamo in presenza di una resistenza che non consiste solo in una guerra guerreggiata. L’obiettivo è quello di dare spazio e notorietà al conflitto ceceno attraverso azioni clamorose, mutuate dalle formazioni islamiche radicali.
Anche la resistenza cecena è d’altra parte divisa in vari gruppi: fondamentalisti, moderati, e così via, ragione per la quale il confronto con i problemi che essa pone non può essere ridotto al terrorismo d’ispirazione religiosa.
Il caso ceceno ha avuto almeno due conseguenze. Sul piano interno, ha sicuramente inciso sulla legittimità del potere centrale. Putin era salito al potere garantendo il ristabilimento dell’ordine, in particolare in Cecenia e nel Caucaso russo in generale. Non si può dire che ci sia riuscito. Va onestamente detto che, fatta eccezione per alcuni fatti clamorosi, il conflitto ceceno non pesa molto sull’opinione pubblica russa. Alla vita comune del cittadino russo medio non arriva. È un conflitto che si svolge in una provincia lontana di cui non va esagerata l’incidenza sull’opinione pubblica russa. Tuttavia, è un conflitto che, come si è detto, ha evidenziato l’inefficienza e il degrado delle forze armate e di sicurezza russe e questo rappresenta un problema per uno Stato che si vuole accreditare come efficiente.
Altra conseguenza, di cui Putin si è tanto preoccupato, è che la guerra cecena ha proiettato un’immagine negativa della Russia in Occidente e, in parte, nel mondo musulmano. In Occidente pochi mettono in discussione il diritto della Russia a non permettere la secessione della Cecenia, il cd. jus ad bellum. Quello che è oggetto di ricorrenti critiche sono le forme estreme, in flagrante violazione dei diritti umani, con cui questo diritto viene esercitato, ossia lo jus in bello. La scelta di radere al suolo la città di Grozny, atto di inaudita violenza, ovvero un regime di occupazione di sistematica repressione hanno creato un’immagine negativa del regime russo. Quest’ultimo, d’altra parte, non accetta interferenze o tentativi di mediazione dall’esterno, in quanto ciò offenderebbe l’orgoglio nazionale e mortificherebbe l’ambizione di prestigio che porta il governo centrale a gestire i propri affari interni in maniera totalmente autonoma dall’estero. In quest’ottica, risulta del tutto strumentale la scelta di negare il problema, sostenendo di avere a che fare solo con banditi e terroristi.
Possiamo conclusivamente affermare che questo conflitto presenta una dimensione interna ed una esterna. Per quanto riguarda l’atteggiamento occidentale, si è avuto un ridimensionamento degli atteggiamenti critici, soprattutto dopo gli eventi dell’undici settembre 2001. In nome della lotta comune contro il terrorismo, di cui i ceceni sarebbero parte, le critiche sia europee che americane si sono molto attenuate. La logica del realismo ha suggerito, insomma, che il terrorismo va combattuto con tutti i mezzi. Il punto è che non è chiaro quanto il movimento ceceno sia un movimento terrorista alimentato dall’esterno e quanto invece risponda esclusivamente a istanze nazionali. Ciò porta a riflettere su un ulteriore punto: il rapporto della Russia con l’Islam.
La Russia ha tradizionalmente avuto un rapporto diretto, coinvolgente con l’Islam, in quanto parte della popolazione è islamica e il territorio russo confina, gravita lungo quello che è il cd. arco di crisi dei paesi musulmani, dall’Afghanistan, al Pakistan, all’Iran, al Medio Oriente, alle popolazioni del Caucaso.
Anche in questo caso, la Russia si deve confrontare con un problema di carattere interno e un altro di rilevanza esterna. Il primo, a mio a parere, è limitato. In alcune regioni, come la Cecenia, in cui l’influenza musulmana è divenuta consistente, questa viene utilizzata per rafforzare l’identità nazionale ma, tutto sommato, l’islamismo interno russo è moderato, pragmatico. A parte il conflitto ceceno, non ci sono episodi di terrorismo che hanno questo tipo di matrice.
Il problema diventa più complesso se guardiamo al rapporto con l’esterno, ossia con i paesi confinanti, come l’Afghanistan, perché strategicamente e militarmente il fronte meridionale russo è il più esposto, vulnerabile, affacciandosi su un’area investita da grandi turbolenze: rivendicazioni etniche, guerriglie, anche legate alla criminalità, al traffico di droga, all’esportazione di armi, e così via. Un confine, lo rammentiamo, che si estende per migliaia di chilometri.
La Russia sa di doversi confrontare con il mondo musulmano e lo fa anche attraverso iniziative come la normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita o il mantenimento di buoni rapporti con l’Iran e con l’Iraq. Ha tutto l’interesse a mantenere una relazione positiva con questo mondo, con il quale si deve confrontare ora ma con il quale si è sempre storicamente confrontata, paese-barriera all’espansione islamica che proveniva dalle regioni confinanti, in particolare attraverso l’Impero ottomano. La Russia è stata tradizionalmente presente anche nel Medio Oriente, basti ricordare la presenza della Chiesa ortodossa a Gerusalemme. Anche nel conflitto arabo-israeliano, a parte le vicende generali di politica estera, esiste un diretto coinvolgimento dovuto all’emigrazione ebraica russa verso Israele.
Il complesso delle ragioni è quindi molto consistente.
Esiste poi un ultimo, ma non meno importante, aspetto da tenere in grande considerazione. In quest’area, dal Mar Caspio agli Stati dell’Asia centrale, sono localizzate enormi riserve di fonti energetiche. I giacimenti di gas e petrolio e le relative possibilità di sfruttamento e trasporto sono concentrate in buona parte proprio in queste zone. Sussistono quindi interessi economici molto forti, non solo in termini strategici e di sicurezza.
Parte della cassaforte energetica si trova in quest’ area e la Russia tenta di stabilire rapporti di cooperazione con i paesi interessati, come l’Iran e le ex Repubbliche sovietiche.

D. Se abbiamo colto correttamente il suo pensiero, il conflitto ceceno non sarebbe portatore di reali pericoli per la Russia, se non in relazione alla sua valenza simbolica. In questo la maggiore difficoltà per gestirlo e risolverlo politicamente.

R. Sì, sostanzialmente credo sia così.

D. A conclusione di questa lunga intervista, di cui la ringraziamo, ci piacerebbe un’ultima riflessione su un tema culturale di fondo che ha attraversato tutta la storia della Russia, ma che in questo passaggio storico delle relazioni internazionali assume particolare interesse e rilevanza. Ci riferiamo alla questione circa la reale vocazione del Paese, verso l’Occidente del mondo, secondo le probabili propensioni della corte tsarista pietroburghese, ovvero verso l’Oriente, secondo le radici culturali bizantine da alcuni ritenute la vera anima del Paese, di cui sarebbe simbolo la realtà moscovita. Si tratta di un’analisi il cui interesse va al di là dei fattori contingenti (il rapporto Russia-Nato, l’ipotizzato ingresso nell’Unione Europea), ma che è destinato a rivestire grande importanza anche in relazione al ruolo che la Cina è in procinto di rafforzare sullo scenario globale.
Quali considerazioni si sente di proporre ai nostri Lettori sull’argomento?



R. La collocazione geopolitica della Russia è un elemento condizionante in più direzioni. La Russia si trova a cavallo tra Asia ed Europa, subisce quindi un condizionamento geopolitico particolare. Deve tener conto di vari fronti: l’Est, l’Ovest e il Sud.
Sul piano culturale, gli atteggiamenti che la Russia assume verso il mondo esterno si prestano ad una certa complessità di lettura. Persiste in Russia un tradizionale dibattito tra quelli che venivano chiamati occidentalisti e i cd. slavofili, tutto centrato su quanto il paese dovesse gravitare verso l’Europa o quanto dovesse, invece, conservare una propria identità specifica, impostazione che forse nasceva anche da una eccessiva sopravvalutazione dei valori spirituali russi rispetto a quelli europei. C’è poi una terza posizione, quella degli eurasisti, emersa negli anni venti, che tendeva a sottolineare come la Russia fosse in qualche modo collocata a metà tra i due continenti presentando, anche geograficamente, elementi asiatici. Da qui l’ambizione a fare da ponte fra l’Asia e l’Europa.
Questo tema è stato ripreso sul piano ideologico dall’Unione Sovietica. L’internazionalismo comunista voleva, ad un certo punto sembrava che vi fosse riuscito, creare questo ponte tra l’Asia e l’Europa o, come direbbe Huntington, tra l’Occidente e gli altri. Pur tenendo conto di tutto ciò, sono convinto che nella sostanza, al di là delle differenze regionali pur marcate, la Russia resti un paese che gravita verso l’Occidente. Una frase di Dostojevsky in qualche modo avvalora la mia idea: “Ogni russo ha due patrie: la Russia e l’Europa”. Certamente si tratta dell’affermazione di un intellettuale molto particolare, ma riassume un po’ il senso, almeno a livello dell’intellighenzia, di questo atteggiamento.
Nei confronti dell’Europa, e più in genere dell’Occidente, c’è stato sempre un rapporto di attrazione-rifiuto. Sul piano culturale, oltre che su quello economico, la Russia si chiede come non farsi egemonizzare, come mantenere la propria identità di grande nazione. Questo è un problema che hanno avuto altri grandi paesi in situazioni analoghe. Ad esempio, l’ha avuto il Giappone con gli Stati Uniti d’America. Quanto è possibile prendere dall’Europa, dall’Occidente, senza perdere la propria identità? Non si tratta solo di un discorso economico, cioè di come non dipendere su un piano materiale, ma va oltre, sul piano della cultura, della religione. È un sentimento molto diffuso che non riguarda solo la Russia, ma anche gli altri paesi dell’Europa orientale, come la Polonia, di fronte allo straordinario processo di espansione verso est del nucleo forte dell’Europa occidentale.
L’Unione Europea è il soggetto che ha gradualmente portato avanti questo processo, arrivando ad includere i paesi dell’Europa orientale e alcuni Stati già parte dell’area sovietica, come quelli Baltici. Ora si pone in tutta evidenza il problema dei rapporti con la Russia.
Che tipo di rapporto l’Europa vuole avere con la Russia?
In termini economici, lo abbiamo già ricordato. Esiste un’ampia possibilità di cooperazione sul piano commerciale e degli investimenti che procede, sebbene con tutti gli ostacoli legati alla diversità dei due sistemi, ai problemi tariffari, alle burocrazie, non seconda quella di Bruxelles.
L’Unione Europea ha sviluppato un’attività molto intensa di avvicinamento alla Russia. Una simile scelta ne rafforza il ruolo politico diplomatico, ne fa un soggetto internazionale. Per molti aspetti, quello della sicurezza in particolare, il rapporto prioritario rimane quello con gli Stati Uniti, ma le relazioni con la Russia hanno dato prestigio all’Unione Europea e, sicuramente, anche alla Russia che trova in questa un partner importante (istituzionalizzazione dei rapporti reciproci, incontri ai massimi livelli, ecc.).
La Russia e l’Unione Europea restano, tuttavia, due soggetti internazionali molto diversi. La Russia è un paese sovrano, tradizionale, conservatore, con un forte senso della propria identità nazionale e integrità territoriale. L’Unione Europea è una comunità di Stati, un processo, un sistema in fieri. Per queste ragioni, ritengo, contano per la Russia in via preponderante i rapporti bilaterali con i singoli Stati. In particolare con la Germania, per ragioni economico-politiche e per la sua stessa consistenza.
La Germania ha interesse ad una Russia stabile perché solo questo può garantire la stabilità dell’Europa orientale, cioè quella dei paesi che dividono l’occidente dall’area ex sovietica dell’Europa. Inoltre la Russia e la Germania sono i paesi più importanti e popolosi d’Europa.
La Francia ha un rapporto importante con la Russia, di carattere storico-diplomatico. Fa parte della grandeur francese cercare un rapporto con la Russia, che nel passato assumeva una funzione antitedesca, mentre oggi è in funzione antiamericana. C’è poi un rapporto sentimentale, culturale. I francesi hanno una forte capacità di proiezione culturale che è molto apprezzata in Russia e non dimentichiamo che l’intellighenzia russa, almeno quella di una volta, si formava in Francia.
La Gran Bretagna ha minori interessi economici, ma di recente i leader inglesi hanno cercato di intrattenere buoni rapporti. La Thatcher ha scoperto Gorbachev, Blair si intrattiene amichevolmente con Putin: abbiamo assistito e assistiamo ad una forte personalizzazione nei rapporti tra i due paesi.
L’Italia ha sempre avuto un buon rapporto con la Russia, fin dall’epoca sovietica, in cui intratteneva intense relazioni, sia di carattere economico (ENI, FIAT) che politico. L’imprenditorialità italiana ha penetrato la Russia nei limiti del possibile e oggi l’Italia è il secondo partner economico della Russia dopo la Germania. Esiste, tuttavia, un certo dislivello tra il rapporto politico e quello economico in quanto quest’ultimo è al momento significativamente più rilevante.
L’espansione europea è ormai arrivata a toccare i confini della Russia (Finlandia, Baltico), anche se rimane il problema dell’enclave di Kaliningrad, che è una regione russa separata dal territorio della madrepatria. Ma nonostante ciò, a mio parere, si spingono troppo in avanti coloro che chiedono oggi l’ingresso della Russia nell’Unione Europea. Si tratta in questa fase di un progetto irrealistico per entrambe le parti.
L’Unione Europea non può includere la Russia senza diventare qualcosa d’altro, sia per la vastità del territorio russo, sia perché questo arriva a confinare con la Cina e non è pensabile un’inclusione della Russia limitata agli Urali.
Ma la Russia stessa non vuole entrare nell’Unione Europea perché questo implicherebbe un condizionamento esterno, limitazioni alla sua sovranità, sia dal punto di vista propriamente politico che economico. Quello che si ritiene un grande paese non vuole essere soggetto a decisioni esterne che provengono da Bruxelles, dall’acquis communitaire.
Quello che si può sperare è che si proceda con gradualità e perseveranza lungo questa strada, sia pure con tutte le difficoltà burocratiche e amministrative esistenti (creazione di nuovi confini, problema dei visti, ecc.). L’Unione Europea non è ancora in grado di aprirsi completamente alla Russia da un punto di vista commerciale e, ancor meno per una serie di timori diffusi, di consentire la libera circolazione delle persone in relazione ai noti e già citati problemi legati alla criminalità e all’immigrazione di massa.
In sintesi, il rapporto Unione Europea-Russia si è sviluppato negli ultimi anni ed è positivo. Si è tradotto in parte, anche se non ne va esagerata la portata, in alcune posizioni comuni. Un esempio per tutti, la questione irachena. Ma l’Europa e la Russia rimangono divise.
Uno dei problemi della Russia di oggi rispetto all’Occidente è che questa non vuole dover scegliere tra l’Europa e gli Stati Uniti. Vuole mantenere un rapporto equilibrato tra questi due poli e, quindi, è contraria ai dissidi euro-americani. La vecchia visione sovietica che puntava sul dividere l’Europa dagli Stati Uniti è superata. Questi ultimi restano il referente essenziale perché, come nella guerra fredda, Stati Uniti e Unione Sovietica rimangono nella percezione russa i due grandi.
I vertici tra Putin e Bush sono quelli che pesano maggiormente dal punto di vista delle decisioni politiche sebbene, sentimentalmente e psicologicamente, i russi siano a livello di opinione pubblica più favorevoli all’Europa che non agli Stati Uniti, di cui temono l’egemonia. Inoltre con l’Europa esiste una prossimità territoriale, psicologica, che ha un suo peso. Anche i sondaggi rivelano che l’opinione pubblica russa è molto favorevole all’Europa. Il 75% della popolazione, secondo dati recentissimi, vorrebbe la Russia membro dell’Unione Europea, al di là dei costi che questo implicherebbe. L’opinione pubblica dell’Europa occidentale è a sua volta filorussa, mentre quella dell’Europa orientale è, per ovvi motivi, diffidente se non ostile.
Per quanto riguarda il versante orientale della Russia, resta importante e lo diventerà ancor più in futuro. Se la Cina continuerà a crescere e il Giappone avvierà una credibile ripresa, l’Asia-Pacifico si confermerà una delle tre aree chiave del sistema economico mondiale. Certo la Russia gravita verso l’Occidente, anche per il non trascurabile motivo che i 4/5 della sua popolazione sono al di qua degli Urali, vivono nella parte europea, mentre solo un quinto risiede nella parte asiatica.
Ma la componente territoriale asiatica, sia dal punto di vista economico che strategico, rimane fondamentale, se la Russia vuole coltivare l’ambizione di tornare ad essere a pieno titolo grande potenza.
Non v’è chi non veda, infatti, che la Russia basa la sua forza proprio nell’essere una potenza euroasiatica, nell’avere un fronte sul Pacifico e uno sull’Europa. La frontiera del Pacifico implica anche il contatto diretto con gli Stati Uniti, attraverso lo Stretto di Bering, non solo con il Giappone e, ovviamente, con la Cina.
Il principale rapporto sarà nei prossimi anni quello con la Cina, un paese che per la prima volta nella storia recente supera per importanza la Russia e che già da ora, dopo anni di difficoltà in epoca sovietica, per ragioni ideologiche, è molto positivo. Tuttavia la Cina, che resta un enigma per noi, lo è ancor di più per la Russia, che si trova ai suoi confini.
La Russia, nel guardare alla Cina, avverte problemi analoghi a quelli dei paesi occidentali, in particolare nel non poter prevedere se e come questa potenza economica si tradurrà in futuro in potenza militare. Potrebbe diventare un gigante e la Russia si trova proprio ai suoi confini.
Esiste per esempio il problema dell’immigrazione cinese nei territori russi dell’Estremo Oriente. Il divario demografico, senza cadere nello stereotipo del pericolo giallo, è molto consistente. La regione cinese che confina con la Russia ha 120 milioni di abitanti e dall’altra parte ci sono tra gli 8 e i 10 milioni di russi. La Siberia è tra l’altro l’area più ricca di materie prime dell’intera Russia. Non dimentichiamo che parte dei territori meridionali della Russia asiatica erano sotto il controllo e la sovranità cinese. A metà del 1800 sono stati annessi dai russi. I cinesi considerano questi trasferimenti territoriali, come nel caso di Hong Kong, oggetto di “trattati ineguali”, ossia avvenuti non con il consenso ma attraverso l’uso della coercizione. Potenzialmente, queste zone possono costituire un problema nei rapporti russo-cinesi.
Per concludere, possiamo ritenere che la Russia graviti verso l’Occidente, oggi più che in passato, non solo in quanto è caduta la barriera ideologica, ma anche perché un paese più aperto subisce una forte influenza economica, oltre che politico-culturale. La Russia vuole essere parte dell’Occidente, ma a determinate condizioni, non in posizione subordinata, in quanto, lo ripetiamo, la Russia si propone come una grande nazione che deve essere accolta alla pari.
Esiste anche la prospettiva per la Russia di avere un rapporto positivo con i paesi dell’Asia con i quali confina, non tanto per controbilanciare i rapporti con l’Occidente, quanto per aggiungere una dimensione a questa sua vocazione ad essere grande potenza, non più globale come era al tempo delle superpotenze, ma regionale, cioè una grande potenza euroasiatica.

D. L’Italia ha sviluppato di recente una politica estera particolarmente attenta alle vicende della Russia. Un ultimo aspetto che ci sembra utile approfondire è quello della politica portata avanti anche dagli Stati Uniti e dall’Europa nei confronti della Russia. Quali sono, prof. Calzini, gli interessi reali dell’Occidente rispetto alla situazione russa? Esistono diversità di vedute su questo argomento?

R. La Russia è tornata di attualità di recente sia per gli avvenimenti cui ha dato ampio risalto la stampa, sia perché il paese si trova in procinto di rinnovare le proprie istituzioni.
Esistono preoccupazioni legittime per quanto concerne gli ultimi sviluppi delle vicende interne russe, sebbene i rischi non sembrano tali da porre una discussione di fondo circa la natura politica, i valori ispiratori di quel regime. Su questo sappiamo che ci sono divergenze. Il problema è che questi sviluppi interni sono rivelatori dell’esistenza di forti contraddizioni all’interno del regime e non è chiaro come questo possa incidere sul progresso istituzionale e sulle riforme economiche della Russia, che sono condizione stessa per una politica di cooperazione con l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Tutto ciò, quindi, riguarda l’Europa e l’Italia, in particolare, con la quale intrattiene buoni rapporti, specie sotto il profilo economico. Esistono interessi economici, di scambi, di investimenti e strategici sul piano della sicurezza che non possono essere trascurati.
La mia impressione è che Putin, pur essendo un presidente dotato di forti prerogative, non controlli pienamente la situazione ai vertici del sistema. Non è tanto in atto, a mio avviso, uno scontro di personalità: Khodorkovsky, Voloshin, il procuratore generale Ustinov, quanto si tratta di una contrapposizione di gruppi e fazioni che si rifanno rispettivamente al potere economico o a quello politico. È un confronto, una contrapposizione, latente da tempo, che oggi è venuta allo scoperto, di cui non conosciamo bene i termini politici e operativi, che presenta una doppia valenza. La prima è di principio: esistono i fautori di uno statalismo più accentuato, di una maggiore centralizzazione e di un più marcato controllo burocratico, tendenza che, come sappiamo, fa parte della tradizione russa. Questo orientamento avanza, come motivo di legittimazione, la difesa dell’interesse nazionale russo nel suo complesso. Esistono, d’altra parte, gruppi, forze che si rifanno ai principi del liberismo, sia per ragioni opportunistiche, che in linea di principio, portatori di interessi di settore: quello energetico, quello dell’esportazione di armi, ecc.. Questi ultimi hanno una visione, potremmo dire, più particolarista, frammentata. A livello politico, operano gruppi che controllano lo sviluppo dell’economia e quindi condizionano la politica ufficiale a proprio vantaggio. Esiste, quindi, una contrapposizione tra gruppi legati all’economia e gruppi legati alla politica, ai poteri forti, alla sicurezza.
Questo scontro rivela quindi anche una dialettica interna, nell’ambito del regime, di tipo pluralista. Ha quindi una sua legittimità in quanto si basa sulla contrapposizione di valori, di impostazioni, di progetti oltreché di interessi.
La situazione comunque sfugge nella sua pienezza agli osservatori, se non altro per i modi in cui si svolge questo scontro che non ha riferimenti espliciti, ad esempio nella Duma o a livello di opinione pubblica. Ci si chiede, in particolare, quanto questa incertezza e queste contraddizioni possano incidere sulla politica riformatrice che Putin si propone di sviluppare, quanto risulti un elemento di imbarazzo e di stallo, soprattutto in un momento come questo in cui, alla vigilia delle elezioni, come sempre accade, l’adozione di scelte drastiche con implicazioni sociali e politiche consistenti sono più difficili.
L’Occidente – l’Europa in senso lato per gli aspetti economici, e gli Stati Uniti principalmente per motivi di sicurezza – come si pone rispetto a tutto ciò? La percezione è quella di avere a che fare con un partner in difficoltà; pertanto non è facile capire come queste si traducono in termini di possibilità per la Russia di stabilire o consolidare un rapporto sistematico con l’Occidente. Rimane, comunque, sempre la consapevolezza del fatto che ci si trova confrontati a un processo di transizione lunga e difficile, che esiste un legato del passato sovietico e addirittura tsarista che pesa, che persistono limiti di mentalità, di personale e così via.
Tutto questo dovrebbe portare l’Occidente ad assumere un atteggiamento articolato, di realismo politico. Ciò non significa rinunciare a valutazioni di carattere etico e di principio, ad esempio circa le violazioni dei diritti umani nella guerra in Cecenia. Non bisogna esimersi dal formulare critiche di tipo formale e politico quanto ai rischi di deriva autoritaria di quel regime, che rientrano nei normali rapporti fra gli Stati che cooperano. Non dobbiamo condannare in blocco l’esperienza russa di Putin dando per scontato che la politica di riforma non abbia prospettive di successo. In terzo luogo non bisogna operare con troppa ambivalenza, con ipocrisia. Condannare in alcune occasione le operazioni in Cecenia, ad esempio nell’ambito del Consiglio d’Europa, e poi non parlarne in occasione di altri incontri. Cercare quindi di avere un atteggiamento più coerente sia a livello di Stati che di Unione Europea. Tutto questo sapendo che le scelte occidentali pesano, anche se è difficile quantificarle, sugli sviluppi russi. Anche se la Russia è chiusa in sé stessa per ragioni di orgoglio, non gradisce intrusioni e rimane un paese con un forte senso della propria identità di grande nazione, tuttavia in questa fase – e Putin ne è consapevole – ha bisogno dell’Occidente se vuole portare avanti il processo di modernizzazione. Quindi, un margine, non eccessivo ma effettivo, di influenza esiste.
In conclusione l’Occidente deve essere in grado di sviluppare una politica sofisticata, calibrata, che non urti il prestigio russo. Ad esempio, la critica alla vicenda Khodorkovsky da parte del Dipartimento di Stato americano ha destato una reazione anche vivace da parte del Ministro degli Esteri Ivanov che ha sottolineato la natura interna delle questioni sul tappeto.
Insomma, gli interessi comuni esistono, c’è convergenza, la cooperazione ormai è avviata, ma persiste ancora un evidente divario a livello di valori, di come si intenda la democrazia, lo Stato di diritto, il libero mercato. Ritorniamo così al discorso fatto in precedenza sul carattere ibrido del regime russo, tenendo conto del fatto che – e questo è l’aspetto su cui si possono avanzare auspici o speranze – con l’intensificarsi della cooperazione sulla base degli interessi economico-sociali e culturali, si sviluppa un’interazione che non è solo di beni, ma anche di idee e di persone. È in atto un processo graduale di compenetrazione Occidente-Russia che progredisce. Un precedente positivo in questo senso è rappresentato dai rapporti dell’Occidente con l’Europa orientale a regime comunista nel corso degli anni 70/80, che portarono poi agli eventi che conosciamo. La libera circolazione delle idee è qualcosa di importante nell’epoca della rivoluzione delle comunicazioni e non si tratta di un’idea astratta, ma concreta perché, appunto, come dicevamo, modifica le mentalità.
È auspicabile, quindi, che si possa avere gradualmente anche un ravvicinamento di valori, una confluenza di valori oltre che di interessi.
In conclusione, resta sempre il dilemma di fondo occidentale: quale Russia si vuole? Una Russia forte o debole? Le tesi sono complesse. Una Russia debole non è a vantaggio di nessuno. Solo posizioni estreme vorrebbero una Russia disaggregata in tre/quattro formazioni separate, ma si tratta di posizioni minoritarie. In linea di principio la maggioranza dei responsabili politici è favorevole alla prospettiva di una Russia forte, anche in previsione del ruolo di barriera che potrebbe svolgere rispetto all’Islam o, in futuro, alla Cina. Queste posizioni si dividono però su un punto: considerata la storia russa, i pessimisti ritengono che una Russia forte tenderà a diventare aggressiva; ritengono cioè che se si rafforzano le capacità, cambieranno anche le intenzioni. Altri invece ritengono che se la Russia si rafforzerà, si rassicurerà e verrà meno il suo senso di isolamento e ciò le consentirà di diventare un partner più costruttivo per l’Occidente. Personalmente sono piuttosto di questo secondo parere.


(*) Intervista realizzata il 10 novembre 2003.
In data 7 dicembre 2003 hanno avuto luogo le elezioni per il rinnovo della Duma russa, che hanno portato ai seguenti risultati: Russia Unita: 37,1%; Partito Comunista: 12,7%; Liberal Democratici: 11,6%; Rodina: 9,1%; Yabloko: 4%; Unione di Destra: 3% (Fonte: "La Repubblica").
Secondo l’unanime opinione degli osservatori internazionali, queste elezioni hanno conferito maggior forza all’attuale leadership presidenziale, anche in vista delle elezioni di marzo (a cura della Redazione).
(1) Secondo l’opinione della gran parte degli osservatori, la situazione non subirà sostanziali modifiche nella nuova Legislatura, apertasi con le elezioni del 7 dicembre. Il "partito del Presidente" ha incrementato i propri consensi. Tutto fa presumere un sostegno ancora maggiore del Parlamento nei confronti dell’attuale leadership di Vladimir Putin (a cura della Redazione).
(2) Vedi supra.
(3) Le elezioni del 7 dicembre hanno confermato questa impressione. Infatti il partito comunista di Zjuganov ha visto ridurre considerevolmente i suoi consensi a poco più del 10% dei voti. (a cura della Redazione)

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